
Oggi, per sfrattare un inquilino, è necessario avviare una procedura legale che varia a seconda del motivo.
In caso di morosità, dopo un sollecito formale, si procede con l’atto di citazione e la successiva richiesta di convalida di sfratto al tribunale.
Per finita locazione, il proprietario deve comunicare la disdetta sei mesi prima della scadenza del contratto. Se l’inquilino non va via, il proprietario può avviare una procedura di sfratto per finita locazione.
In tutti i casi, di mezzo abbiamo raccomandate e pec, avvocati e tribunale.
Ma un tempo, era così?
Ovviamente no.
E ce lo dimostra il documento postale protagonista dello sfizio di oggi, una piccola bustina, di quelle atte a contenere un bigliettino da visita, inviata da Giovanni a Vito per raccomandata con ricevuta di ritorno da Torritto (nell’Alta Murgia barese) a città il 26 maggio 1920.
Se andiamo a vedere il tariffario postale dell’epoca, però, scopriamo che in quel momento spedire una lettera per lo stesso distretto costava 15 centesimi, che se si voleva aggiungere il servizio di raccomandazione occorreva integrare l’affrancatura per 30 centesimi, e nel caso si volesse aggiungere anche la ricevuta di ritorno necessitavano altri 25 centesimi.
La busta è affrancata con un francobollo da 45 centesimi, sufficiente a coprire la tariffa della lettera per il distretto e del servizio di raccomandazione, ma non il costo della ricevuta di ritorno. Segno, questo, che il mittente ci avrà forse ripensato al momento di spedire allo sportello.
Girando la bustina, sul retro osserviamo un’annotazione del portalettere (Margese dovrebbe essere il cognome, ma poco importa): «Rifiutata».
Rifiutata?
E perché mai il destinatario rifiutò la missiva?
Lo scopriamo leggendone il contenuto.
«Porto a vostra conoscenza che la casa da voi abitata a via Gioberti di questo Comune, composta di un sotterraneo, di portone e di due stanze a pianterreno, è di mia esclusiva proprietà. Mia madre, Angela Savalle, ve la fittò, in mia assenza, nel 1918, allorché io ero a prestare servizio militare. Ora, tornato dalle armi, e per giunta ammogliatomi, ho bisogno di detta casa per mia esclusiva abitazione, e perciò vi invito a lasciarla in mio potere alla fine di Agosto 1920, ossia al 31 Agosto del corrente anno, all’ora della consuetudine legale. In caso di vostra mancata accettazione, sarò costretto a promuovere giudizio dinanzi al Pretore, a vostro danno e spese. Tanto per vostra opportuna norma.»

Lettera perfetta, non c’è che dire. Sembra quasi dettata da un avvocato, però, o no? In alcuni punti si vede la “farina del suo sacco”, in altri l’uso di certi termini o frasi sembrano quasi indotte, come se qualcuno avesse detto a Giovanni cosa esattamente scrivere.
Tra l’altro, Giovanni ha fatto bene a ripensarci sull’avviso di ricevimento. Dal momento che il destinatario ha rifiutato la consegna, non vi sarebbe stata alcuna ricevuta di ritorno, e quindi di fatto i 25 centesimi del servizio sarebbero stati soldi sprecati.
Ma quindi… mentre Giovanni era al fronte, mamma Angela gli ha affittato casa a sua insaputa?
Ma possibile?
O è solo una scusa, una motivazione, da dare all’inquilino per rafforzare la richiesta di sfratto?
E cosa ha voluto dire con “all’ora della consuetudine legale”?
Non mi intendo di diritto, ma una rapida ricerca in rete chiarisce che con quest’affermazione si intende un comportamento costante e ripetuto dalla collettività quando non vi è una norma a regolare il comportamento stesso.
Può sembrare incredibile a chi non pratica giurisprudenza e diritto, ma occorre sapere che nell’Italia unita il primo Codice di procedura civile venne promulgato nel 1865, e che questo rimase valido per diversi decenni, sostituito soltanto nel 1942!
Quindi, nel 1920 era in vigore il Codice del 1865 che agli articoli 1612 e 1613 chiarisce la questione della “consuetudine legale” applicata agli sfratti:
«1612. Il locatore non può sciogliere il contratto, ancorché dichiari di voler abitare egli stesso la casa locata, se non vi è patto in contrario.
1613. Quando si è pattuito nel contratto di locazione che il locatore possa portarsi ad abitare la casa, egli è tenuto a dare anticipatamente la licenza all’inquilino nel tempo fissato dalla consuetudine del luogo.»
Quindi, dato che le norme in quel momento vigenti non riferiscono di termini entro cui si poteva intimare uno sfratto, la “consuetudine legale” dei luoghi evidentemente voleva un preavviso di tre mesi.
Ma la brutta notizia per Giovanni è che lui non poteva, in base all’art.1612, sciogliere il contratto, pur dichiarando di voler abitare la casa.
L’unica speranza è che mamma Angela abbia inserito nel contratto di locazione questa clausola, questo “patto”, così come previsto dal successivo art.1613.
Vito avrà lasciato libera la casa entro il 31 agosto?
Io credo proprio di no perché questa raccomandata Vito non l’ha mai letta, avendola rifiutata. E, quindi, quali fossero le intenzioni di Vito mi sembrano abbastanza chiare: non sloggiare da lì.
Chissà come sarà andata a finire…
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