INTERPRETE PIUTTOSTO CHE ARTIGLIERE

INTERPRETE PIUTTOSTO CHE ARTIGLIERE

Beh, diciamo che di corrispondenze di guerra ne abbiamo viste tante, no?
Eppure… Eppure… C’è sempre qualcosa da scoprire e qualcosa di nuovo da raccontare.

È il caso del documento postale di oggi, una comune e banale cartolina postale spedita il 4 giugno (postalizzata il giorno dopo, 5 giugno) 1941 da Luciano da Brindisi, ovvero dall’ufficio di Posta Militare n.167 come riportato nel bollo.

L’ufficio di Posta Militare n.167 venne aperto il 10 gennaio 1941 al Comando base di Brindisi, e lì rimase sino al 1° giugno 1944 quando venne chiuso per poi essere riassegnato in seguito a zone di operazioni (tra cui la Linea Gotica).
Ma all’epoca della nostra cartolina la situazione attorno a quell’ufficio era di ordinaria amministrazione.

Il destinatario è un gruppo di tre artiglieri di stanza presso il IX Reggimento Artiglieria di Corpo d’Armata, IV Batteria, Foggia.
Questo reggimento venne costituito l’11 marzo 1926 proprio a Foggia, ma nel 1933 la sede venne spostata a Teramo. Nel 1941 il 41° raggruppamento del IX Reggimento Artiglieria era localizzato a Foggia.

Sono tre ex commilitoni del mittente, e lo comprendiamo dal testo della cartolina che andiamo a leggere (anche se, battuta a macchina e non manoscritta, è immediatamente leggibile anche senza trascrizione).

«Miei cari compagni!
Fedele alla promessa fattavi voglio mandarvi mie nuove sulla mia nuova vita militare da interprete. Appena arrivato a destinazione, dopo nove ore di dura tradotta, mi presentai al comando base di Brindisi dove mi assegnarono in qualità di interprete al Comando stazione di questa città.
La mia impressione di qui almeno per ora non c’è male speriamo che questa rimanga almeno per il mio breve periodo di permanenza. Appena giunto mi hanno appiopato subito del lavoro con i nostri simpatici camerati dello Asse. Momentaneamente sono aggregato al 47 reggimento fanteria. Vi posso assicurare che per ora non ho ancora preso visione di quella caserma. Il rancio mi viene gentilmente portato alla stazione dove non mi rimane altro che sgranare. Di ciò che mi sono meravigliato è la DECADE, che è tale quale a quella vostra. Dormo separatamente in una cameretta, non conosco più nè permessi né ritirate. Il caldo e le mosche non mancano: cio nonostante campo ugualmente. Godo ottima salute come spero anche di voi. Se intendete dare evasione alla presente indirizzate nel seguente modo:
Artigliere Interprete H.L.-Comando Militare di Stazione-Brindisi.
Colgo l’occasione per mandare i miei saluti allo allievo uff. Flora e ditta bella, non che al caro amico Tenze. Sperando di ricevere fra breve qualche vostra comunicazione termino inviandovi tutti cordialissimi saluti. Heil Hitler!»

A parte il saluto finale che mette i brividi…
Luciano doveva capire bene il tedesco se venne inviato a Brindisi come interprete a servizio degli alleati germanici. Il saluto finale, forse, dipende proprio da questo.

Ad ogni modo, sotto la guerra gli interpreti erano merce rara, non soltanto perché svolgevano il lavoro più ovvio, quello di tradurre un testo da una lingua a un’altra, ma perché nel farlo erano anche mediatori culturali.

Questo perché una lingua non è solo regole e grammatica, ma è anche bagaglio culturale e spirituale del popolo che la parla: usanze, credenze, modo di pensare di un popolo, visioni del mondo e della vita, comportamenti, azioni.
Fattori, questi, che vanno presi in considerazione durante l’interpretariato di guerra in modo da dare la corretta connotazione alla frase che viene tradotta.

Di conseguenza, per tradurre l’italiano in tedesco serviva un italiano che conoscesse il tedesco, e non un tedesco che conoscesse l’italiano. Apparentemente la stessa cosa, ma in realtà due cose profondamente diverse.

Ciò aveva applicazione soprattutto, sotto la guerra, nell’ambito della censura della corrispondenza. Durante il conflitto aumentava esponenzialmente il volume della corrispondenza viaggiante, non solo per via dei soldati al fronte che scrivevano a casa ma anche per i prigionieri che inevitabilmente il conflitto produceva, prigionieri ovviamente di nazionalità diversa dalla propria che scrivevano a casa (diritto garantito dalla Convenzione di Ginevra).

Emerge quindi la necessità di avere degli interpreti, guide o figure di riferimento con cui è fondamentale imparare a costruire un rapporto di fiducia, anche perché il tempo condiviso, spesso lungo e intenso, porta inevitabilmente a instaurare un legame personale.

Questo rapporto, che si sviluppa in un lasso di tempo molto breve, così come la decisione di affidarsi a un interprete appartenente alla popolazione locale, spesso privo di una formazione professionale specifica, può rivelarsi un’arma a doppio taglio che rischia di compromettere il principio di neutralità dell’interprete, il quale si trova frequentemente a collaborare con la parte avversa, pur continuando a far parte integrante della propria comunità.

Fu il caso di Arminio Wachsberger, ebreo romano, tra i 1024 ebrei rastrellati al Ghetto di Roma il 16 ottobre 1943 e deportato sui carri bestiame diretti al campo di sterminio di Auschwitz. Moglie e figlia che erano con lui vennero inviate direttamente alle camere a gas, lui invece fu costretto a fare da interprete a Josef Mengele.

Ma non era il caso di Luciano, camerata alleato, il quale sembra anzi molto soddisfatto della sua nuova sistemazione sebbene, a parte caldo e mosche, sulla “decade” (l’importo pagato appunto ogni dieci giorni come buoni per il cibo) si aspettasse forse qualcosa di più.

Rimane da comprendere come possa aver impiegato un treno (la “tradotta” è appunto un convoglio ferroviario per militari) nove ore per coprire la distanza tra Foggia e Brindisi quando in realtà ce ne vuole giusto un terzo, ma forse in quelle nove ore va conteggiata anche una sosta, magari lunga, alla stazione di Bari. Chissà.

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