Dopo l’entrata in guerra il 10 giugno 1940, l’Italia fascista emanò il Regio Decreto-Legge 17 settembre 1940, n. 1374, “Modificazioni ed aggiunte al testo unico delle leggi di pubblica sicurezza per il periodo dell’attuale stato di guerra” (Gazzetta Ufficiale n.240 del 12.10.1940) in cui, all’Art.1, si disponeva:
«Durante l’attuale stato di guerra, il Ministero dell’interno può disporre l’internamento delle persone contemplate dall’art.181 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R. decreto 18 giugno 1931-IX, n. 773.»
L’art.181 del decreto nel 1931 disponeva, a sua volta, le categorie di persone pericolose per la sicurezza pubblica e che potevano essere inviate al confino politico, ovvero gli ammoniti, le persone diffamate in seguito a una serie di delitti elencati all’art.165 del medesimo decreto, e coloro «che svolgono o abbiano manifestato il proposito di svolgere un’attività rivolta a sovvertire violentemente gli ordinamenti politici, economici o sociali costituiti nello Stato o a contrastare o a ostacolare l’azione dei poteri dello Stato, o un’attività comunque tale da recare nocumento agli interessi nazionali.»
La differenza tra confino e internamento consisteva nel fatto che l’assegnazione al confino era ordinata da apposite commissioni provinciali e poteva avere una durata massima di 5 anni, mentre l’internamento civile (come abbiamo visto) era gestito direttamente dal Ministero dell’Interno, senza alcuna limitazione e senza dover rendere conto a nessuno.
Con l’entrata in guerra dell’Italia, quindi, gli ebrei maschi stranieri e gli apolidi vennero immediatamente arrestati, mentre donne e bambini ebrei vennero internati.
Vennero pertanto allestiti alcuni campi, con baracche e mura di cinta, come a Ferramonti-Tarsia (e più avanti a Fraschette di Alatri, etc), ma nella maggior parte dei casi vennero utilizzate, affittandole, strutture esistenti disabitate o mal messe, come ville patrizie, monasteri, conventi, capannoni, caserme dismesse, ospizi, scuole.
A Pollenza (prov. di Macerata), in contrada Santa Lucia, esisteva (ed esiste tuttora) il complesso di Villa Lauri, una grande tenuta agricola entro cui sono presenti vari edifici, tra cui la villa padronale costruita su progetto di Ireneo Aleandri a partire dal 1855 da Lauro Lauri e suo figlio Giovanni.
Esteso su un terreno di 500 mq, l’edificio padronale è suddiviso in tre piani fuori terra (comprendenti una trentina di camere che potevano contenere un centinaio circa di persone) e un seminterrato.
Ben si prestava allo scopo, e quindi si decise di aprire lì un campo di internamento riservato esclusivamente alle donne.
Il 5 giugno 1940 la Prefettura di Macerata stipulò un contratto di affitto della disabitata Villa Lauri con l’allora proprietaria, la marchesa Isabella Ciccolini vedova Costa, per un canone mensile di £ 2.500 (Maria G. Pancaldi -a cura di-, Ricordare conoscere. Segregazione e internamento in provincia di Macerata 1940-1944, Macerata, 2009, p.33).
Il 26 giugno 1940 arrivarono le prime tre internate, successivamente altre. Nel 1941 le internate erano una cinquantina. Il 12 febbraio 1942 vennero trasferite a Pollenza 65 donne provenienti dal campo di Lanciano. Il 31 agosto 1943 si registra il numero massimo di internate, 103 (Carlo S. Capogreco, I campi del duce, Torino, Einaudi, 2004, pp.189-190).
Si trattava per lo più donne straniere di diverse nazionalità, tra cui slave, greche, francesi e polacche, e di religione ebraica.
Alle internate veniva corrisposto un sussidio giornaliero di 6 lire e 50 centesimi.
Le condizioni di vita delle internate, sebbene con qualche disparità in funzione della nazionalità, erano generalmente buone (potevano circolare nel parco, per un certo periodo anche recarsi in chiesa per ascoltare la messa la domenica), così come buone erano le condizioni dell’edificio (con acqua abbondante, docce con scaldabagno, infermeria con tre letti di degenza).
Il campo era gestito da un funzionario di pubblica sicurezza coadiuvato da una direttrice. Settimanalmente si recava a Villa Lauri il direttore del campo di Treia-Urbisaglia, poco distante e da cui idealmente dipendeva Pollenza, per un’ispezione.
Naturalmente, la corrispondenza in uscita e in entrata era soggetta a censura; una volta ispezionata la corrispondenza, sulla busta veniva apposto un bollo circolare “CAMPO CONCENTRAMENTO POLLENZA” (anche se, come detto, era un campo di “internamento”, non di “concentramento”) ed eventualmente altri bolli di censura (molto frequente è un lineare su due righe “VERIFICATO PER CENSURA” in cartella).
Dopo l’8 settembre 1943 le internate riuscirono a fuggire, ma molte vennero rastrellate nei giorni seguenti dai nazifascisti e spedite al campo per prigionieri di Sforzacosta.
Pollenza rimase chiuso sino al 19 gennaio 1944 quando riprese a operare sotto il controllo della Repubblica Sociale Italiana. Ma questa è un’altra storia.
Il documento postale di oggi ci consegna una terribile testimonianza del periodo dell’internamento civile femminile a Villa Lauri, una lettera spedita da una delle internate.
La missiva, datata 23 marzo 1941, venne sottoposta a censura (ben visibili i bolli sulla busta), quindi postalizzata a Pollenza il 24 marzo 1941, e diretta a Napoli dove giunse l’indomani.
Riporto la trascrizione.
«Villa Lauri, 23-3-41
Carissimo Babbo,
Ti ringrazio delle tue buone notizie: biglietto postale, cartoline e lettera che ho letto con grandissimo piacere.
Fai bene a svagarti un poco, lavori tanto, povero papà, e approfittane della bella stagione per fare delle gite nei dintorni di Napoli in buonissima compagnia.
E’ già troppo che io sia confinata qui dentro fin da impazzirne, non bisogna che anche tu sia sacrificato. Perché fare due infelici invece di uno?
Saranno due mesi il 27 che ho fatto la mia domanda e non c’è ancora nessuna risposta: c’est desesfésant! [Ndr: è desolante!] Cinque o sei settimane bastano abitualmente. Non so più che cosa pensare, non credo più a niente, sono stufa di tutto, ecco tutto. La tiro coi denti quella esistenza di reclusa e sono à bout de forces [Ndr: senza forze]. Anche le altre internate dicono lo stesso e molte si fanno rimpatriare, felicissime sono di tornare in Francia.
Nessuna novità da segnalarti per il momento.
Ringrazio e ricambio i saluti agli amici.
A te, carissimo babbo, e a tigrette i più affettuosi baci della
Tua figliola
Suzette»
Il destinatario, Alfredo Tartarone, era dunque il papà della mittente, Suzette.
E se già tutto questo sarebbe sufficiente per comprendere l’importanza di questa testimonianza, ben più valida e genuina di qualsiasi resoconto riportato nei libri di storia, questa missiva altro non è che un ulteriore tassello di una storia incredibile che è possibile scoprire facendo una semplice ricerca in rete.
La storia di Suzette Tartarone.
Nella lettera appare evidente quanto Suzette sia stanca. Non ne può più di trovarsi relegata entro quattro mura, è desolante e allo stesso momento insopportabile, la limitazione di libertà è una condizione inaccettabile per chi ha commesso l’unico delitto di nascere da madre ebrea.
Suzette, infatti, era nata dalla relazione tra Alfredo, napoletano, e una donna francese ebrea che aveva lasciato la bambina in custodia al padre.
Per le leggi razziali fasciste i matrimoni tra ariani ed ebrei erano vietati, e anche Suzette era ebrea.
Era sufficiente, ma a questo si aggiungeva anche il temperamento di Suzette, come chiaramente emerge dalla lettura della missiva: una ragazza decisa, sicura di sé, una tipa che non le manda a dire. E questo suo carattere libero per il rigido regime fascista, che voleva la donna casalinga e fucina di figli, era interpretato come eccessivo, troppo emancipato, persino licenzioso.
Suzette venne prelevata da casa del padre e nella primavera del 1941 internata appunto a Pollenza.
Da lì scrisse diverse lettere al padre.
Nove di esse sono state nel tempo rinvenute nel mercato antiquario da Gaetano Bonelli, fondatore e direttore del “Museo di Napoli – Collezione Bonelli”, e con esse è stata organizzata nel 2022 una mostra dal titolo “Memoria e Shoah”, a cura di Mariagrazia Paris di Poste Italiane e Adriana Riccio di Filatelia Ravel, presso lo Spazio Filatelia di Poste Italiane di Napoli.
Quella protagonista dello sfizio di oggi è quindi una decima lettera, sinora inedita, ma che rappresenta un tassello di quei terribili momenti vissuti da Suzette e al contempo vuole essere una testimonianza pura, genuina, e allo stesso momento terribile, delle atrocità delle leggi razziali fasciste.
Che fine fece Suzette Tartarone?
La vicenda delle lettere Suzette, sin dal primo ritrovamento nel 2011, ebbe un grande clamore mediatico (ne ha riferito anche lo storico Mario Avagliano sul suo blog), e questo soprattutto per merito di Bonelli che ha saputo valorizzare e divulgare il materiale rinvenuto: lo stesso identico spirito che nutre e muove Sfizi.Di.Posta.
A seguito di un articolo del giornalista Paolo Barbuto sul Mattino di Napoli, l’assessore comunale al patrimonio, Marcello d’Aponte, ha riconosciuto Suzette come sua zia, e ha potuto così raccontare le vicende di Suzette in un successivo articolo sul quotidiano.
Dopo brevi trasferimenti nei campi di Caldarola e Castelraimondo, una volta chiuso il campo di Pollenza a settembre 1943 Suzette era destinata a salire su un treno insieme ad altre ottocento persone, diretto verso il campo di concentramento di Flossenburg, in Germania, un campo di lavoro dalle condizioni inumane.
Lo zio (marito di Maria, sorella di suo padre) di Suzette, Carlo Borntraeger, era questore a Torino, aderente alla RSI, ma proprio grazie al ruolo ricoperto riuscì a sottrarre ai tedeschi molti ebrei ed antifascisti, tra cui appunto la nipote che non salì mai su quel treno diretto ai campi di sterminio.
Come vi riuscì non è dato sapere, ma Suzette riuscì a tornare a Napoli, e lì rimase sino alla sua morte negli anni settanta.
Da donna libera.
Quale Suzette era.
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